Quello che accadde a Tal Afar nel 2005

Diego Remaggi
9 min readSep 4, 2022

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Photo: Chris Hondros / Staff /Getty Images News

Martedì 18 gennaio 2005, Hussein e Kamila Hassan e 5 dei loro figli stavano tornando a casa nella loro berlina Opel Vectra rossa nel centro di Tal Afar . La famiglia, di origine sciita turkmena era stata in ospedale perché uno dei figli era malato. Samar Hassan ricorda che la famiglia aveva lasciato la loro casa al tramonto mentre pioveva.

La visita in ospedale doveva essere stata ragionevolmente breve poiché il sole era tramontato, ma a Mansour Boulevard vi era ancora la luce del tramonto quando l’auto degli Hassan vi entrò durante il viaggio di ritorno.

Erano circa le 17:50 e, all’arrivo del crepuscolo e del coprifuoco delle 18:00, l’auto era entrata nel quartiere di Al-Sarai dove militari americani stavano conducendo un pattugliamento su una strada considerata relativamente sicura tra l’avamposto di combattimento principale della coalizione (situato a Tal Afar) e la base della coalizione FOB Sykes, 10 miglia a sud, nella base aerea. Lo scopo dei controlli era quello di impedire agli insorti di piazzare bombe nella zona del percorso.

La squadra presente comprendeva: il terzo plotone e un unità di supporto che comprendeva 1 veicolo di evacuazione medica, un interprete (che non parlava però il turkmeno, lingua dell’80% della popolazione locale) e il fotoreporter Chris Hondros, corrispondente di Getty Images assieme ad altri reporter. Tutti i presenti stavano camminando lungo la strada, a intervalli di 20 metri e si mimetizzavano perfettamente nella luce ambientale, con i negozi ormai chiusi, la penombra e la luce molto sbiadita.

Tal Afar, 18 gennaio 2005 — Photo: Chris Hondros / Staff /Getty Images News

Hussein Hassan ha guidato contro i soldati senza esserne al corrente. Lo conferma anche la testimonianza del suo secondo figlio, Rakan, che era seduto dietro. Hussein non si era avvicinato ad alcun checkpoint (come al contrario avevano detto BBC, Guardian e NYT che avevano ripreso una dichiarazione del comando della coalizione battuta dalle agenzie). La Opel della famiglia Hassan si stava solo avvicinando alla pattuglia del terzo plotone.

Chris Hondros era lì. Ha detto di aver sentito il motore dell’auto in accelerazione. L’incrocio era in pendenza ed è probabile che davvero il signor Hassan avesse dovuto premere di più sul pedale dell’acceleratore. Il coprifuoco scattava alle 18:00, ma nella cultura islamica molto spesso si tende a considerare di più l’orologio del ciclo solare, prendendo il tramonto come spartiacque e inizio della notte.

Quando Hussein Hassan ha svoltato a destra lungo il Mansour Boulevard verso la squadra di pattuglia qualcuno ha gridato: “Auto!”. In questi casi, per avvertimento, viene sparato un colpo di fucile. L’auto però non ha accennato a fermarsi. È stato quindi sparato un secondo colpo di avvertimento e ancora la Opel di Hassan non si era fermata. A questo punto qualcuno ha gridato “Fermate quella macchina!”. Dopo il comando è iniziata una raffica di spari che secondo un rapporto militare interno era diretta ad una ruota anteriore o al vano motore. L’autista e il passeggero della Opel erano stati considerati come una minaccia: erano Hussein e sua moglie Kamila. Uno degli stessi soldati presenti durante l’accaduto avrebbe poi dichiarato: “Quando il veicolo non si è fermato, diversi soldati hanno poi sparato direttamente contro di esso con fuoco semiautomatico (colpendo il parabrezza, sinistro, destro e centrale), che ha ucciso il conducente e il passeggero anteriore e ferito almeno un bambino nella sedile posteriore del passeggero”. Questo però non era previsto dalle regole militari di ingaggio (ROE), nonostante un’indagine militare avvenuta il giorno seguente rilevò che le indagini dei militari presenti furono effettivamente “ragionevoli per intensità, durata ed entità”. Ad insospettire i militari fu probabilmente il peso eccessivo caricato nella parte posteriore della macchina, i figli della famiglia Hassan, che poteva ricordare quello delle auto cariche di esplosivo che nell’anno precedente erano state largamente usate nei pressi di Mosul proprio contro le truppe americane.

Secondo quanto riferito da Newsweek, furono sei i soldati a fare fuoco contro l’auto della famiglia Hassan. Spararono con la mitragliatrice leggera M249. L’auto arrivò all’incrocio in velocità e poi, una volta crivellata di colpi perse ogni slancio, fermandosi contro un marciapiede quasi ad angolo retto.

Le vittime

Hussein e Kamila Hassan furono uccisi sul colpo con proiettili che arrivarono alla testa e alla parte superiore del corpo. Rakan, uno dei cinque bambini a bordo, è diventato paraplegico avendo conseguito una grave ferita nella parte bassa della schiena che gli ha danneggiato anche intestito e vescica.

Al bambino sono stati prestati i primi soccorsi sul ciglio della strada per tamponare le ferite ed è poi stato trasferito d’urgenza presso l’ospedale di Tal Afar, per poi andare a quello di Mosul. Un’altra delle figlie, Jilan, è stata curata per le ferite da schegge al visto; Samar, 5 anni, ha subito una ferita da proiettile alla mano destra e diversi tagli al viso; Rana, rimase apparentemente illesa, ma subì un trauma profondo che ebbe delle ricadute sul suo intero organismo. L’ultimo figlio della coppia rimasta uccisa era un neonato ed è rimasto assieme ai suoi fratelli quando furono tutti portati al pronto soccorso dopo la sparatoria.

Photo: Chris Hondros / Staff /Getty Images News

Rakan, un anno dopo, è stato trasportato a Boston per trattare con tecniche più avanzate la sua paralisi grazie all’interessamento dell’operatrice umanitaria americana Marla Ruzicka (che rimase vittima successivamente di un’autobomba), del senatore Ted Kennedy e del filantropo Raymond Tye.

Tutte le infermiere del centro si innamorarono di lui. È stato lo stesso quando è stato trasferito all’unità pediatrica dello Spaulding Rehabilitation Hospital. Alison Tate, una brillante fisioterapista, prese l’iniziativa nel convincere Rakan a camminare di nuovo. Lei lo spingeva e lui a volte la respingeva, perché era un ragazzo di 12 anni. Ma Alison alla fine ce l’ha fatta. Lei e le sue amiche a Spaulding avevano convinto Rakan a camminare di nuovo.

Kevin Cullen — Boston Globe

Tornò in Iraq nel 2007 ma un anno dopo, il 16 giugno 2008, rimase vittima di una bomba esplosa sulla casa di suo cognato e tutore, Nathir Bashir Ali a Mosul. Anche in questo caso due delle sue sorelle rimasero ferite, ma riuscirono a riprendersi in fretta. Per Rakan invece non ci furono speranze. La sua guerra era finita per sempre.

Sebbene in molti si mobilitarono per aiutare anche le altre sorelle e il fratello di Rakan, sembra che nessuno degli sforzi messi in piedi da organizzazioni benefiche, associazioni o privati cittadini abbia avuto un riscontro tangibile sulla vita dei figli della famiglia Hassan. Samar, dieci anni dopo l’accaduto disse: “Nessuno ci ha aiutato dopo la morte di mia madre e mio padre. Nessuno ha avuto pietà di noi o ci ha dato un centesimo”.

Analisi

Chris Hondros

“Il problema con la fotografia di guerra è che non c’è assolutamente modo di farlo a distanza. Devi essere lì, devi trovare un modo per entrare in mezzo alle cose. A volte, devi sospendere la tua ragione”.
Chris Hondros -

Samar Hassan, una delle bambine rimaste colpite nella sparatoria di Tal Afar, vide le fotografie di quel giorno solo 6 anni dopo. Milioni di persone al mondo avevano saputo quello che era accaduto grazie agli scatti di Hondros ma non lei. Non aveva rimosso quello che era accaduto, ma non sapeva che qualcuno era lì e aveva documentato tutto. L’immagine di lei in lacrime, sanguinante sul bordo della strada, il fare della sera, le luci e le grida di aiuto del fratello e delle sorelle. Quell’istante del 2005 rimase come congelato nella storia e fece il giro del mondo, ma la vita di Samar, di quello che restava della sua famiglia, è proseguita, attraverso vie laterali, nella penombra, senza l’aiuto di nessuno.

Samar avrebbe voluto diventare un medico, non riusciva ad andare a scuola, era troppo timida e decise di rimanere a casa ad aiutare la sua nuova famiglia, a Mosul. Ascoltava musica, guardava soap opere.

A volte ci chiediamo che impatto possono avere le immagini come quelle scattate a Tal Afar. Raccontano una storia, prima di tutto, e impongono chi le osserva ad una riflessione. La impongono a vari livelli, a chi sfoglia una rivista, a chi cerca di approfondire l’argomento e a chi si sente colpevole di quanto accaduto. Il lavoro di Hondros è stato un punto di discussione nel mondo del giornalismo e dell’opinione pubblica ma anche ai livelli più alti del Pentagono, che da quel momento iniziò a studiare più attentamente i modi per ridurre le vittime civili, o quantomeno di mostrarne le conseguenze. Il conflitto in Iraq è stato uno dei più parsimoniosi di reportage indipendenti, non tanto per la mancanza di fotografi, quanto per l’attenzione che gli stessi militari avevano messo nelle regole per i giornalisti “embedded” che partivano assieme alle truppe. Iniziarono a farlo dopo la debacle del Vietnam, e si trovavano a dover fronteggiare l’espansione vertiginosa della Rete, con cui ormai molti dei reporter di guerra stavano acquisendo familiarità. Non è un caso che Chris Hondros, che si trovava come embedded durante il pattugliamento di Tal Afar, fu costretto a lasciare il suo posto dopo aver inviato in agenzia le foto che ritraevano Samar in lacrime, mettendo un intero paese a riflettere sugli episodi più dolorosi di un’“escalation della forza” che non era ancora stata resa nota al mondo.

“[La fotografia di Hondros] sembra davvero dire qualcosa di quello che sta succedendo in quel momento, tutta l’arbitrarietà della violenza che stava avvenendo in quel momento è riassunta da quella ragazza”.
- Liam Kennedy, professore all’University College di Dublino

In un’intervista a Democracy Now, Chris Hondros ha detto qualcosa di più circa quel giorno: “Il suo nome, a quanto pare, è Samar, Samar Hassan, e aveva cinque anni al momento della foto… Non c’erano molti soldati. Era solo un piccolo plotone, forse cinque o sei militari e un medico che cercò subito di valutare i bambini per vedere che tipo di ferite avessero. E Samar era lì da sola a piangere, mentre uno degli altri bambini veniva assistito. Lei è in piedi accanto al soldato, penso che uno dei motivi per cui la foto ha avuto questo tipo di risonanza è perché ha una sorta di sensazione di vuoto: sai, una bambina, tutta sola al mondo ora, da sola, al buio”.

Uno degli slogan della rivista Paris Match, fondata nel 1949 era “Il peso delle parole, lo shock delle fotografie”. Dovendo fare un riassunto delle immagini che hanno condizionato l’opinione pubblica oggi, l’elenco sarebbe sempre più lungo. Ognuna di esse a suo modo ha dato una spinta agli ingranaggi della consapevolezza di vivere in una realtà molto più violenta di quanto ci immaginavamo in passato. Più violenta per colpa dei governi, degli eventi naturali, delle religioni e degli interessi economici, tanto che ormai, in un sovraccarico di informazioni, scritte e visuali, le immagini spesso hanno assunto dei cliché che le rendono frammenti di epiloghi che ripetono: la fuga dal Vietnam, gli aerei che partono da Kabul con i civili aggrappati alle ali, gli elicotteri sulla ambasciata nella green zone di Baghdad. Tutti esempi di un fallimento e la riproposizione di una scenografia ormai meno originale di quella dei film.

Chris Hondros morì pochi anni dopo, a Misurata, in Libia, mentre stava fotografando quello che stava accadendo durante il periodo della Primavera Araba. Scattò da diverse parti del mondo, durante altrettanti conflitti di cui i media occidentali si interessarono a fasi alterne: Nigeria, Angola, Iraq e Kosovo. “Ha guardato oltre il caos della guerra”, ha detto il giornalista Greg Campbell, “Si è concentrato sulle persone colpite dai conflitti. Ha trovato l’umanità”. “[Chris] ha realizzato foto incredibili perché è andato più lontano e si è avvicinato [ai combattimenti] rispetto al resto di noi”, ha detto la fotografa vincitrice del Premio Pulitzer Lynsey Addario, collega e amica.

Perse la vita sotto i bombardamenti dell’esercito di Gheddafi. Assieme a lui c’era un altro fotografo e amico: Tim Hetherington. Ma di lui e dell’Afghanistan parleremo in un altro momento.

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Diego Remaggi

Nato in una città chiamata La Pace, abituato a vivere in un mondo di guerra. Scrivo di giornalismo e geopolitica. Email: diego.remaggi@pm.me